lunedì, giugno 17, 2013

Quintetto Base (parte 4)

La serratura della palestra era più ostinata del previsto. Dario armeggiò con il suo coltellino svizzero. Era un regalo del natale precedente, lo aveva chiesto a sua madre con la scusa di poterlo usare per intagliare bastoni da portarsi in montagna. Ovviamente l’unico legno che aveva conosciuto la sua lama era stato quello di alcune porte della scuola, magazzini più che altro, e qualche sfortunato albero su cui incidere il proprio nome.

“Dai sbrigati prima che passi qualcuno” lo spronò Paolo.
“Non mettermi fretta!Altrimenti non ci riuscirò mai!”
“Continuo a pensare che sfondare il vetro dell’antipanico dietro sarebbe stato meglio” insistette Gianluca

Mentre i tre stavano chinati sulla porta, Marco era appena poco più lontano dagli amici per tenere d’occhio la strada. Si nascondeva dietro la piccola siepe del vialetto d’entrata della palestra. Erano sicuri che non ci fosse l’allarme. Avevano seguito le ultime gare di pallavolo femminile, sia per andare a guardare le ragazze in pantaloncini che per studiare il posto. Si consideravano esperti ormai. Non era certo il primo furto che portavano a termine. La scuola media del loro paese era stata presa d’assalto già diverse volte. Più che altro per  atti vandalici, registri spariti, muri imbrattati. Avevano portato via un po’ di cancelleria varia, dai pastelli costosissimi del loro insegnante di artistica, alla chitarra dell’aula di musica per Gianluca. Ma in palestra avrebbero trovato anche del denaro, ne erano sicuri. Era il mese delle iscrizioni e il custode era solito racimolare tutte le quote prima di depositarle. Lo conosceva bene Marco, abitava vicino a sua zia e aveva studiato anche i suoi orari. Ora stava sicuramente a casa a guardarsi la partita dei playoff di serie A.

“Veloci, ci state mettendo troppo tempo”, bisbigliò ai suoi complici cercando di non urlare.

Non sapeva com’era iniziata quella serie di bravate, ma era conscio del fatto che gli piaceva l’adrenalina e la presenza dei suoi tre soci in tutto ciò. Erano una squadra e poi potevano divertirsi ai danni di un luogo che li aveva tenuti prigionieri per anni. Certo, ora erano alle superiori, ma, pensò Marco, ogni cosa a suo tempo. Prima dovevano ambientarsi e capire come muoversi in quel nuovo mondo. Essere primini non era il massimo per farsi notare.

Un suono simile a quello che si può sentire quando si spezza un ramo di un albero sotto il troppo peso della neve, interruppe i pensieri di Marco e il silenzio attorno a loro.

“Evvai!” esultò Dario.

La serratura aveva alla fine ceduto. Corsero dentro il lungo corridoio che conoscevano a memoria. Arrivati all’interno della palestra, la luna, piena e limpida nel cielo notturno, illuminava l’interno a giorno. Si fermarono in silenzio restando ad ammirare quel luogo. Senza rendersene conto, tutti e quattro stavano pensando di avere la palestra a loro completa disposizione. Quel luogo, d’altra parte, era stato per diverso tempo l’unico che riuscivano a frequentare senza sentirsi angosciati. Marco s’incamminò verso la porta del magazzino principale, dove erano stipati i palloni,le palle mediche,i materassi e tutto ciò che serve in una palestra scolastica. Sapeva che quella porta non era mai chiusa. Una volta un gruppo di ragazzi giocando con i carrelli che contengono i palloni da basket e da pallavolo ruppero lo stipite laterale dove finisce solitamente la serratura e da allora non fu più riparata. La aprì e prese un pallone arancione della spalding.
Il suono sordo del rimbalzo della palla echeggiò nella palestra vuota. Gli altri si girarono, ma invece di preoccuparsi, sorrisero.

“Due contro due?” disse maliziosamente Marco.
“Perché no” rispose Dario.

La palestra, che aveva un lato collegato con la scuola, si trovava lontana quanto bastava da abitazioni o strade troppo trafficate, sapevano che nessuno li avrebbe sentiti da fuori. Anche se nessuno si pose troppi problemi.
Iniziarono a giocare. Dapprima con poca veemenza, per poi aumentare l’adrenalina e la competizione insita in quell’età. L’idea che li aveva portati li dentro ora era accantonata e il gioco aveva preso il sopravvento. Un passaggio, un tiro sbagliato, sberleffi e risate con eco riempirono il silenzio del luogo. Non si accorsero della figura in ombra che li guardava da almeno un mezz’ora.

Dario staccò un tiro da tre perfetto e il “ciuff” della rete bucata fu seguito da un applauso proveniente dal fondo della palestra. Li ghiacciò.

“Bravo, bel tiro e ottimo stacco di gambe. Peccato che siate lenti a muovervi suoi passaggi” disse l’ombra.

Nessuno ebbe il coraggio di rispondere. Erano dei vandali, scassinatori e imbrattatori di professione, ma non avevano ancora sedici anni e non erano nel Bronx.

“Beh, perché vi siete fermati?Non vi piace un po’ di pubblico?” proseguì l’uomo mentre avanzava verso di loro.
“Ecco..noi..veramente..” balbettò Gianluca.
“Noi abbiamo trovato aperta la palestra e siamo entrati a fare un giro e” si giustificò Paolo.
“Certo come no, ed io sono arrivato volando sul mio tappeto magico” lo schernì senza farlo finire “Ok ragazzi, non prendiamoci in giro. Avete scassinato la porta della palestra, non so per quale motivo, forse per imbrattare un po’ questo posto, come presumo abbiate fatto con la scuola qualche tempo fa. Non ci vuole Sherlock Holmes per capire che siete voi quelli che stanno facendo danni da un po’. Quello che non capisco è perché siete rimasti qui a giocare a basket, non credo che tutto questo casino lo abbiate fatto per una partitella che potevate benissimo fare al parchetto dell’oratorio”

La sua voce era calma. Nessuno di loro ebbe l’istinto di scappare, c’era solo un forte imbarazzo perché nemmeno loro sapevano perché s’erano fermati così a lungo perdendo di vista il progetto iniziale della loro bravata.

“Beh io ora comunque dovrei chiamare la polizia, qui c’è stato un tentativo di furto e ci sono sicuramente dei legami con tutto quello che sta succedendo in questo periodo” disse più a sé stesso che ai quattro ragazzini.
“No!La prego, non abbiamo fatto nulla di male, cioè, si abbiamo fatto una cazzata, forse più di una, ma non chiami la polizia. Mio padre mi ucciderebbe” lo implorò Gianluca.
“Sei la solita ragazzina Gian” intervenne Dario “Noi ora potremmo anche metterci a correre e lei non riuscirebbe a prenderci. E negheremo tutto”
“Sì certo potete farlo, ma ora io so chi siete e posso far partire qualche denuncia. Chissà che a casa vostra non si trovi qualche bel materiale rubato alla scuola o gli spray usati per colorarla. Che poi vi prendano o meno immagino che le vostre famiglie qualche sospetto lo avrebbero e vi renderebbero la vita molto difficile. Ho invece un’altra proposta..”

La calma con cui aveva esposto la situazione convinse i quattro amici a tacere e non fare altre obiezioni. Paolo e Marco si sedettero, la partitella e lo spavento di essere stati scoperti aveva rosicchiato le loro ultime forze. Dario, che pur di non farsi vedere in difficoltà con qualcuno avrebbe camminato sui carboni ardenti con il sorriso stampato in faccia, restò in piedi osservando l’uomo con fare interrogativo. Gianluca era paralizzato dal pensiero che il padre scoprisse tutte le sue stupidate e, con la salivazione azzerata, attendeva il responso sul suo destino.

“Voi forse non mi conoscete, ma io alleno la squadra di mini basket del paese. Mi chiamo Vittorio e sto cercando di creare una seconda squadra per i campionati giovanili che inizieranno tra un mese. Vi ho visto giocare, mancate di fondamentali e disciplina,la cosa non mi stupisce, ma avete tutti e quattro un buon tiro e tu” indicò Gianluca che si spaventò ulteriormente “ sei abbastanza alto da diventare un buon pivot. Voi domani vi presentate qui alle diciotto, vi iscrivete e cominciamo ad allenarci insieme agli altri ragazzi. Io non dico niente a nessuno e mi limito a segnalare l’ultimo atto vandalico da parte di ignoti. Quello che vi chiedo è di resistere fino alla prima metà del campionato. Poi sarà vostra scelta restare o andarvene. Io non vi denuncerò anche se doveste decidere di mollare.”

Si guardarono fra di loro. La luna, spettatrice incuriosita, sembrava affacciarsi alle vetrate della palestra per sentire cosa avrebbero deciso di fare. Sicuramente li aveva spiazzati con una proposta del genere. Da pecore nere del paese non si sarebbero mai aspettati di essere trattati in quel modo da un adulto. Vittorio aveva, con poche parole, conquistato il loro rispetto.

I ricordi di Marco vennero interrotti dallo speaker dell’aeroporto che annunciava il suo volo e l’apertura del gate. Prese il suo bagaglio e raggiunse la fila che si stava formando davanti all’entrata. Quella sera segnò una svolta nella vita di ognuno di loro. Non erano certo dei delinquenti accaniti, ma era sicuro che se avessero continuato su quella strada, se quella notte non avessero incontrato Vittorio, forse si sarebbero persi. Ogni ordigno esplosivo parte da una piccola, insignificante scintilla, una miccia che li avrebbe portati verso altri destini.  A volte, nella vita di una persona, basta una piccola chance, per cambiare, per svoltare il proprio fato. Quando succede, nel momento in cui si è davanti al bivio, magari non è chiaro cosa stia succedendo, ma il tempo è capace di spiegare ogni cosa. Vittorio fu la loro possibilità, l’occasione da non perdere.  E gli anni successivi furono probabilmente i migliori vissuti dai quattro amici.

Il giorno dopo, Marco,Paolo,Gianluca e Dario si presentarono alla palestra alle diciotto in punto. I segni dello scasso serale erano evidenziati da un lucchetto da bici enorme usato per chiudere le porte in sostituzione della serratura divelta da Dario. Il coltellino svizzero al sicuro a casa, nascosto in fondo all’armadio con tutti i suoi fumetti. Vittorio, vedendoli arrivare, sorrise dentro di sé, non mostrò questa felicità ai quattro, ma sapeva che aveva vinto almeno una piccola battaglia con loro. Li invitò a cambiarsi e a compilare i moduli per l’iscrizione. Dopo di chè li fece correre, correre e ancora correre. Quella prima giornata d’allenamento li sfiancò come mai in vita loro. Rispetto agli altri ragazzi erano decisamente senza allenamento, ma a quell’età si recupera facilmente.

Marco sorrise pensando che avrebbero dovuto arrivare solo fino all’inverno e alla fine della prima parte di stagione, ma non smisero di giocare per tutto il liceo e i primi anni d’università.
Poi, lui e Dario litigarono,ma quella era un’altra storia. Ora Vittorio aveva bisogno di loro. 

Consegnò la carta d’imbarco all’hostess della easyjet, che controllò la grandezza del suo bagaglio e gli augurò buon viaggio.


“Speriamo” non poté fare a meno di risponderle Marco.

venerdì, maggio 31, 2013

Un sole che dura poco (parte 3)

Marco capì d’essersi perso per l’ennesima volta. In verità non doveva capirlo,ma solo ammetterlo a sé stesso. D’altra parte quando vagava per la città in bici e la musica nelle orecchie,raramente seguiva un percorso logico,erano pochi i momenti di tempo libero e quel giorno un inaspettato sole offriva stimoli maggiori nella pedalata. Era stato tutta la mattina e gran parte del pomeriggio in biblioteca, l’esame era imminente e ancora gli mancava più di una dispensa,ma si sentiva soddisfatto della sessione di studio e,non dovendo lavorare quella sera,si poteva concedere un po’ di svago. Prese la cartina dalla tasca della giacca e cercò di orientarsi. Dopo tre mesi ancora faticava ad assimilare quella lingua greve e decisa che rendeva difficile anche la semplice lettura dei nomi di strade,piazze o viali. Sorrise pensando come i suoi nonni in Italia parlassero un dialetto ancora più criptico e indecifrabile,anche per lui. Mentre scorreva con il dito a ritroso il suo percorso, il cellulare vibrò. Era un sms di Karl, uno dei suoi coinquilini, che gli chiedeva di raggiungerlo per aprirgli il lucchetto della sua bicicletta. Marco sbuffò, perché ora aveva capito in che punto della città s’era andato a cacciare e raggiungere Karl non sarebbe stato veloce. Addio ore di libertà si disse. Diede un’ultima scorsa alla cartina, la ripiegò nella tasca e inforcò la bici in direzione dello sprovveduto amico. Va precisato che Marco non era certo uno scassinatore di lucchetti, semplicemente Karl, essendo una persona estremamente distratta, spesso perdeva o dimenticava da qualche parte la chiave del lucchetto,di casa,del box o qualsiasi altro genere di pezzo di metallo da infilare in una serratura. Erano la sua nemesi. Stava seguendo un dottorato talmente specifico e dettagliato che Marco non riusciva nemmeno a pronunciarne il titolo, ma il suo cervello in fatto di conservazione chiavi, perdeva ogni attività neuronica. Tutto ciò l’aveva portato alla geniale conclusione che l’unica soluzione fosse fornire i propri coinquilini di una copia delle chiavi essenziali, tra quelle non in comune, per correre in suo soccorso in caso di bisogno. Imprecando tra sé e sé contro Karl, imbucò la pista ciclabile opposta a dove si trovava.

Dovendo attraversare quasi tutta Copenaghen, si costruì mentalmente un percorso seguendo dei punti di riferimento facilmente riconoscibili. Se non si fosse perso nuovamente, forse il fine giornata non sarebbe stato tutto da buttare. Passò velocemente vicino alla Christian’s Church, anche quel giorno piena di turisti in coda per poter salire fino all’apice del suo campanile. Proseguì verso la Black Diamond, la biblioteca enorme nella quale passava gran parte del suo tempo, per poi pedalare a rotta di collo verso Norrebro, il quartiere multi etnico dove i profumi della città si mischiavano a quelli dei ristoranti tipici e dei negozi d’antiquariato. Amava muoversi così, in piena libertà, correndo su quelle piste ciclabili infinite che gli permettevano ogni volta di far strade sempre diverse e nuove. Era convinto che non sarebbe mai riuscito a vederla tutta, quella città. Ma ci voleva provare. D’altra parte la sua specialistica sarebbe durata ancora un paio d’anni e l’imminente possibilità di lavorare nel progetto da lui ideato per la Casa del Cinema, la Filmhuset, stimolava ulteriormente la sua voglia di restarci per un bel po’.
Dopo una quarantina di minuti di pedalata intensa, raggiunse Karl alla stazione Centrale di Copenhagen. Ovviamente stava intrattenendo delle giovani turiste, suo sport preferito. Non appena vide Marco arrivare, le salutò frettolosamente per raggiungere l’amico. Sicuramente non erano di suo gradimento, altrimenti staccarlo sarebbe stato molto più complesso.

“Hi my friend!”
“See see my friend, più che altro my portachiavi!” rispose fintamente stizzito Marco.
“Dai Marco, mi rifarò questa sera offrendoti un paio di giri di birra!”

Marco prese dal suo zaino le chiavi di scorta di Karl e gliele lanciò. Il sorriso del suo amico tedesco dai lunghi rasta neri lo portò a pensare che strano essere fosse. Sua madre era siciliana, suo padre un tedesco fatto e finito. Si erano conosciuti durante un congresso sulle scienze motorie a Roma e da allora non s’erano mai più separati. Il loro lavoro li aveva fatti viaggiare in tutta Europa e il piccolo Karl era divenuto cittadino del mondo. Parlava fluentemente diverse lingue e girare per locali con lui era una manna dal cielo, per le ragazze ovviamente. Ormai era in pianta stabile da tre anni a Copenhagen e non era intenzionato ad andarsene molto presto.

“Che fai torni a casa?” gli chiese
“No, credo che sfrutterò ancora quelle poche ore di luce rimasta per farmi qualche altro giro. Ci vediamo per cena” e così dicendo rimise gli auricolari del suo lettore mp3 e, salutato con un cenno l’amico, ripartì verso il centro della città. 

Quel sole improvviso aveva colorato il mondo intorno a lui. I danesi, abituati alla pioggia e al naturale annuvolamento costante, in quelle occasioni sembravano più felici del solito. O almeno a lui così sembrava. Percorse diversi chilometri perdendosi più volte ma senza realmente preoccuparsi, ritrovando poi la via di casa senza bisogno dell’inseparabile cartina. L’importante era girare per un po’ e poi riconoscere qualche luogo per orientarsi. Legò il suo mezzo a pedali alla ringhiera davanti al portone d’entrata che era già buio. Ormai, pensò, gli altri avranno già cenato. Poco male, avrebbe mangiato un panino veloce e poi tutti a sbronzarsi, era la sua serata libera e voleva sciogliersi un po’. Mentre faceva le scale il cellulare squillò nella sua tasca. Era sua madre. Strano, pensò, che lo chiamasse sul cellulare e non tramite skype.

“Ciao bionda!” disse
“Ciao Marco, scusami se ti chiamo sul cellulare, ma devo dirti una cosa e non sapevo se fossi online”
“Wow mi fai preoccupare, che succede?”
“Senti, Vittorio ha avuto un malore, è all’ospedale, non sapevo se dirtelo,ma so quanto tieni a lui e da quello che mi hanno detto non sta migliorando” recitò sua madre, tutto d’un fiato, come se si fosse preparata il discorso.
“Cazzo. Ma cosa è successo?che malore?”
“Un infarto, molto violento. E’ in ospedale in coma farmacologico per fargli riprendere il normale battito cardiaco, hanno paura che non riesca a svegliarsi. Mi spiace caro dovertelo dire così, ma non avevo altro modo. Ora stai calmo. E’ comunque in buone mani. Al San Raffaele. Ti aggiorno non appena so qualcosa.”
“Io…ok, va bene. Grazie.” Rispose automaticamente Marco. La sua mente stava viaggiando alla velocità della luce. Milioni di pensieri si susseguivano misti ai ricordi.
“Ciao tesoro, non ti faccio spendere altri soldi, se vuoi ci sentiamo più tardi con skype”
“Sì, magari dopo cena.Ciao”

Vittorio. Il volto dell’uomo gli si parò davanti, sorridente come sempre, con quelle rughe sulla fronte e intorno agli occhi che volevano solo dire ottimismo e uno sguardo alla vita felice. Ora stava in un letto, forse con centinaia di tubi che usciva ed entravano nel suo corpo. La persona che li aveva uniti e probabilmente salvati. Un secondo padre per tutti loro. E lui era distante da quel letto più di mille chilometri.

Entrò in casa e come un automa si tolse le scarpe e appese la giacca all’entrata. Si diresse in camera sua trascinandosi. Karl gli disse qualcosa dalla cucina ma era lontano una vita da Marco. Prese il suo pc e lo accese. Non sapeva cosa fare. Era in uno stato in cui il suo mondo si era improvvisamente fermato e ora doveva fare qualcosa e non sapeva bene cosa. Di sicuro non poteva stare li.
Karl comparì sulla soglia della porta.

“Che succede Marco?”
“Eh?”
“Ho detto, che succede Marco..ti vedo spento e non credo di sbagliarmi”
“Vittorio sta male” rispose senza pensare
“Vittorio chi?”
“Devo tornare a casa velocemente. Un mio carissimo amico, anzi più che un amico”
“Mi spiace, posso fare qualcosa?”
“No Karl, grazie. Devo chiamare gli altri ora.”

Karl non capì, ma ebbe la cortezza di lasciarlo solo e si allontanò chiudendo la porta. Marco apprezzò. Controllò gli utenti online su skype, ma non trovò nessuno di quelli che voleva chiamare. Spulciò allora i contatti del telefono e con ansia infinita andò sull’unico che sapeva di dover chiamare. Non si parlavano da almeno un anno, dopo quella cazzata che aveva fatto. Ma ora la questione era seria e sapeva che non aveva altra scelta. Premette il tasto di chiamata.

Dopo diversi squilli, dall’altro capo, che sentiva lontano anni luce, rispose una voce familiare.

“Pronto” disse con tono interrogativo, probabilmente leggendo un numero danese sconosciuto.

“Ciao Dario, sono Marco”

domenica, maggio 26, 2013

Ma dov'eri finito? (parte 2)


Il menù di selezione importo del bancomat gli restituì solo due scelte:20 euro o annulla. Si rallegrò. In effetti già il fatto che non fosse in rosso da giorni era quasi un miracolo. Gianluca selezionò l’unica cifra disponibile e dopo aver ritirato il suo tesoretto, si diresse verso la stazione della metro lì vicino. Si era svegliato su di una panchina nel parchetto che costeggia la stazione della metropolitana di Cimiano. A parte i primi 5 minuti di incoscienza, si ricordò subito il perché di quello strano risveglio. La sera prima, dopo la scomparsa “romantica” di Paolo, lui e Dario avevano trovato un passaggio aggregandosi alla compagnia degli amici bergamaschi di Fulmine, riuscendo poi a farsi caricare da una coppia di ragazzi che passavano vicino al loro paese. Solo che prima c’era d’accompagnare un’altra ragazza che abitava vicino a dove lui ora si trovava. Il viaggio fino a li era stato lunghissimo a causa delle frequenti soste imposte dallo stomaco di Gianluca, che visto il parchetto vicino e sapendo che le metro sarebbero ripartite dopo poche ore, aveva a tutti costi insistito per fermarsi a riposare. Dario dormiva già da tempo sul suo sedile e nessuno oppose troppa resistenza(due elementi del genere in auto potevano essere un problema).
Conosceva molto bene quella situazione:in macchina non avrebbe mai smesso di vomitare,necessitava di un posto in cui sdraiarsi e il clima mite gli aveva dato la giusta scusa.
In effetti ora stava molto meglio, il dolore agli addominali causato dai conati della sera prima era lieve. Ovviamente poteva uccidere con l’alito!Era un po’ allibito dal fatto che fosse già l’una del pomeriggio. Ciò voleva dire che se n’era stato su quella panchina per quasi otto ore. Una fortuna, pensò, il modo migliore per far passare una sbronza colossale!
Decise d’investire una parte del suo pil personale in cappuccino e brioche, per dare tregua allo stomaco brontolante, che ormai si stava riprendendo accorgendosi di essere completamente vuoto!
Si guardò un po’ i vestiti e decise che non aveva l’aspetto di un homeless alcolizzato, piuttosto di una persona che aveva avuto una brutta nottata.
Mentre si rifocillava, provò a chiamare Paolo, ricordandosi che quella sarebbe stata una delle ultime chiamate possibili dato che la bolletta dell’abbonamento telefonico non pagata avrebbe portato ad un repentino taglio della sua linea. Altro problema da mettere in lista risoluzioni.
Paolo non rispose, forse stava dormendo, oppure facendo altro. Si rallegrò per l’amico, pagò e si diresse alla metropolitana. Ancora nuvole. Quel terribile maggio non voleva tuffarsi nella primavera e la tregua garantita il giorno prima sembrava già un lontano ricordo. Quei fugaci pensieri, però, vennero bruscamente interrotti dalla spinta del subconscio. L’alcool stava perdendo la sua morsa e il ricordo della mattina precedente e della sorpresa ricevuta dalle mani del padre, tornò violentemente a galla.
Si trovava in camera sua e mentre arpeggiava con la chitarra la corda del mi, la più piccola delle sorelle, si ruppe di colpo arricciandosi quasi tutta alla fine del manico. Gianluca si fermò e la guardò senza espressione. Si era spezzata più o meno all’altezza in cui la stava suonando con il plettro. L’appoggiò al lato del letto e si mise a rovistare nei cassetti della scrivania alla ricerca della corda di ricambio. Perso nella ricerca non si accorse della presenza del padre sulla soglia della porta che lo guardava tra il perplesso e il rassegnato. In mano aveva una busta bianca dalla quale sbucava un cartoncino avorio con dei decori dorati sui bordi. Trovò finalmente la busta di plastica che conteneva le corde del mi e ne prese una. Dalla chitarra slegò le due estremità di quella rotta e con movimenti sicuri sistemò la nuova.
“Mi devi dire qualcosa o vuoi stare ad ammirarmi per tutta la giornata?”
“Ti vorrei ammirare su di un palco o per lo meno vorrei ammirare una laurea del conservatorio appesa nella tua cameretta, scusa, camera ora sei un adulto, giusto?”
“Buongiorno papà, vedo che il sole improvviso ti ha messo di buon umore!”
“Se, se..è arrivata questa per te. Mi spiace e come sempre confermi il fatto di essere un moto perpetuo di delusioni” e così dicendo gli porse il fardello bianco che reggeva fra le mani.
“Ti voglio bene anch’io” e lo prese senza troppa considerazione, appoggiandolo sulla scrivania, continuando ad armeggiare con il suo strumento.
“Un’altra delle tue occasioni sfuma così e tu nemmeno la degni di uno sguardo, ha fatto bene a lasciarti”
Gianluca colse subito il riferimento a Serena. Non poteva essere altro. Subito collegò il decoro appena visto e un brivido freddo gli corse lungo la schiena. Sapeva che la sagacia del genitore aveva giusti fondamenti e che fosse un suo diritto cercare di spronarlo a darsi una svegliata, ma l’argomento Serena era off limits. Persino Dario evitava di parlarne, il che spiegava la gravità della questione.
Con mano tremante e esitando un po’, raccolse il biglietto che ora pesava quintali. Lo aprì e vide ciò che sapeva avrebbe visto:

“Carlo e Serena sono felici di invitarvi al loro Matrimonio che si terrà presso la chiesa di Santa Maria Annunziata a ..”

Smise di leggere ma restò con lo sguardo su quei terribili ghirigori dorati. Non li sopportava. Sembravano dirgli guarda quanto cazzo siamo felici, tanto da fare una cosa pacchiana come questa ed esserne orgogliosi.
“beh che ti aspettavi?Lo sapevi da tempo che s’erano fidanzati. Anzi sono stati pure gentili ad invitarti alla cerimonia” rincarò il padre prima di lasciarlo al suo dolore.
Gianluca appoggiò la chitarra e guardò fuori dalla sua finestra.
Il sole pallido illuminava il parchetto di fronte alla loro casa. Orde di bambini lo avevano invaso in crisi d’astinenza di bel tempo. Nella mano aveva ancora l’invito e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era, che stronza!

Ma era sempre stato così con Serena. Ed ora doveva metterci una pietra sopra definitivamente. Ovviamente andare al matrimonio era da escludere. Avrebbe declinato all’ultimo momento, inventandosi una qualsiasi scusa.
L’edicolante che gli vendette il biglietto lo guardò con un’aria schifata, ma Gianluca non vi fece caso, forza dell’abitudine. Mentre si stava allontanando, lasciando che la persona dietro di lui potesse avvicinarsi all’omone incastrato dietro alle pile di corrieri e gazzette, lo sentì dire “Che gentaglia si vede in questo quartiere la domenica, pensi che una volta qui ci abitava solo brava gente!”
Prima che potesse rispondere, una voce femminile ribattè “E immagino che una volta la gente fosse più tollerante e simpatica di lei, senza dover per forza schifare gli altri per non schifare sé stesso!”
L’uomo, che a Gianluca era sembrato un gigante, si fece piccolo e disse solo “Sono 1 euro e 50”. La ragazza pagò, afferrò la maniglia del suo trolley e s’avvicinò a lui che stava ammirando la scenetta compiaciuto.
“Grazie, non avrei saputo fare meglio!”
“Di nulla e detto tra noi, sembra che ti abbiano centrifugato, lui è stato molto maleducato, ma tu gliela offri su di un piatto d’argento!”
“In effetti non sono al meglio, dormire all’aperto non ha giovato.Piacere Gianluca” ed allungò la mano verso di lei, rincuorandosi di essersela lavata prima di fare colazione, al bar.
“Federica” ricambiò subito.
Aveva i capelli biondi raccolti a chignon dietro la nuca ed indossava un tailleur grigio perla che le disegnava i fianchi sottili. Due occhi castano scuro lo guardavano dal basso, difficilmente una ragazza era più alta di lui.
“Viaggio di lavoro?” disse lui indicando la valigia
“Più o meno , tu invece, ritorno alla vita?”
Gianluca scoppiò in una risata sincera accompagnata dal sorriso malizioso di Federica.
“Touchè!Sì ieri è stata una serata..diciamo difficile.Festa di laurea,penso di non dover aggiungere altro!”
“No, non è necessario”
Raggiunsero la banchina della fermata e guardarono il led luminoso con i tempi d’attesa delle metropolitane.
“Io vado verso Gessate, otto minuti d’attesa!”
“Io in centrale..e sta arrivando ora” sembrò quasi rammaricarsi la ragazza.
“Le nostre strade si dividono subito, quindi!” disse sornione Gianluca
“Direi di sì, ma potrebbero incrociarsi di nuovo” ammiccò lei
“Lo spero..e magari cercherò di farmi trovare meno..centrifugato!”
Federica sorrise ed allungò nuovamente la mano. La borsa che teneva a tracolla si aprì leggermente, tanto da permettergli di leggere il titolo della guida che conteneva.
“A presto allora, Gianluca.E riprenditi!!”
“Ci proverò!Buon viaggio di lavoro più o meno!”
Il suono delle porte a pressione della metro chiuse i loro discorsi e la portò via.
Mentre aspettava seduto sulla panchina, armeggiando con il tabacco e la cartina, i pensieri che gli avevano rovinato la giornata precedente per una volta non lo stavano tormentano. Il profumo che ancora sentiva chissà come presente lo distoglieva dal resto. Ed un sorriso ebete gli si era dipinto sul volto.
Gianluca capì che si era appena innamorato di una donna che molto probabilmente non avrebbe mai più rivisto.
Guardò ancora il cartello luminoso con la scritta “Gessate”, alle sue spalle, sul binario opposto, una nuova metro s’era fermata. Senza esitare buttò la sigaretta mezza rollata e vi salì. Centrale. Sicuramente un treno. Sperò di fare in tempo.
Tra una fermata e l’altra cercava di pensare cosa dirle, ma non trovava alcuna particolare frase da effetto cinema. Non gli importava. Seguire l’istinto era sempre stato il suo piano migliore. E spesso distruttivo.
Arrivato in centrale corse verso le scale che portavano alla stazione dei treni. Buttò un rapido sguardo verso le casse automatiche e successivamente si fiondò verso gli sportelli della vendita biglietti, ma non la vide.
Aggredì i gradini che portavano ai binari. Davanti al tabellone delle partenze cercò Vienna, sperando che la fortuna di aver visto quella guida nella sua borsa potesse essere un segno.
Binario 17. Andiamo bene, pensò.
Si sistemò quanto poté, ma le corse avevano dato il colpo di grazia al suo abbigliamento da scappato di casa.
Finalmente la vide. Stava cercando il suo vagone e con calma percorreva la banchina, trascinando il suo bagaglio a rotelle. Le si avvicinò cercando di non correre. Ma sembrava un maratoneta che non può alzare i piedi da terra. Quando si trovava a una decina di metri da lei, senti che qualcuno la chiamava da un finestrino.
“Federica!Siamo qui!”
Lei guardò in direzione della voce e fece un cenno con la testa.
Alla porta d’ingresso del vagone due braccia maschili si allungarono per prendere il suo bagaglio e aiutarla a salire. Continuando a camminare, Gianluca la cercò attraverso i finestrini. Poi decise di tornare verso quello da cui lei era stata chiamata. Dentro allo scomparto un uomo in giacca elegante, che dava le spalle al finestrino, stava animatamente chiacchierando con lei, probabilmente accennando al ritardo dei treni o a chissà quale problema.
Anche Federica, girando lo sguardo, lo vide. Sgranò gli occhi e sorrise, facendogli un cenno che lui intuì si riferisse alla porta da cui era entrata.
“Che ci fai qui?”
“Ho pensato di non aspettare che si incrociassero di nuovo le nostre strade”
“E che hai fatto mi hai seguito?”
“No, ho tirato ad indovinare, e la looney planet che usciva dalla tua borsa mi ha aiutato”
Il segnale dell’autoparlante chiamò la partenza del treno per Vienna dal binario 17.
“Ancora interrotti dai mezzi di trasporto” disse Federica
“Ci devono odiare. Come posso rivederti?”
“Torno tra una settimana, vediamoci qui. Dovrei arrivare per le 11 del mattino”
“Ci sarò”
“Vedremo”
E si chiusero le porte del treno.
Lei lo guardò e con il dito indice vicino alle tempie lo schernì con un “tu sei pazzo”
Gianluca la guardò e rispose con le labbra “lo so”

Quando il treno era ormai lontano, pensò bene che potesse andarsene dalla stazione.
Un settimana. Alle undici. Sperò di non scordarselo!

lunedì, maggio 20, 2013

Risveglio (parte 1)


Paolo si svegliò dopo diversi squilli. Ciò che subito lo colpì era la secchezza indecente della sua gola. Ogni respiro grattava nella trachea e lo costringeva ad aumentare la salivazione per placare il bruciore. Con gli occhi ancora chiusi cercò la bottiglia d’acqua ai bordi del letto. La trovò subito, ma era vuota. Chissà da quanto, pensò tristemente. Decise quindi di alzarsi e di andare a prendere telefono ed acqua in modo da sedare sia il dolore in gola sia le tempie pulsanti, che, immediatamente, lo avevano aggredito ai primi movimenti dopo il risveglio. Ora che era in piedi in mutande fuori dalle coperte, si accorse che non era di certo una giornata di sole. Pur essendo maggio, da settimane pioveva ininterrottamente e la calda primavera ancora non si vedeva, fatta eccezione per il giorno precedente, che dal pomeriggio sembrava essersi riappropriato della sua consueta temperatura. Raccolse una maglietta a casaccio dal mare di vestiti sparsi per casa. Sembrava che un trolley pieno di ricambi fosse esploso nel centro della stanza, lasciando pezzi di se stesso e di ciò che conteneva ovunque. Raggiunse il telefono e rispose. Era Dario. Ovviamente.
“Pronto” e subito sentì la pestilenza del suo alito.
“Eccolo!Finalmente Principe Carlo!” la voce di Dario, squillante e sarcastica, lo trafisse mentre era ancora immerso nel suo lento e doloroso risveglio “Ce ne hai messo di tempo!Stavi dormendo?”
“No, dipingevo il soffitto della camera” rispose senza troppa allegria “Certo che stavo dormendo e avrei preferito continuare a farlo…”
“Ma che cazzo..sono le due e vuoi continuare a dormire?!”
Le due?!..pensò e guardò l’orologio a forma di bottiglia dell’Heineken. Segnava le due e dieci. Acqua, si disse, prima mi ripiglio meglio è!E cercò con lo sguardo qualche bottiglia d’acqua sul pianale della cucina. Un’intera città fatta da grattacieli di cartoni della pizza o da scatolette di tonno lo guardava accusatorio. Ottima alimentazione, otto ore di sonno, attività fisica e sveglia alle prime luci dell’alba!Una vita devota alla salute!..pensò dirigendosi verso il frigorifero in cerca di qualsiasi liquido non alcolico che poteva ospitare.
“Beh, diciamo che non è stato un buon risveglio” confessò all’amico “Tu che stai facendo?..hai pranzato?” aprì l’anta del frigo e lo investì quell’ottimo profumo di cibo in decomposizione. Sicuramente qualche scadenza ignorata stava restituendo il conto di tale dimenticanza. Prese velocemente la brocca dell’acqua mezza vuota e tracannò senza fiato il rimanente, sbattendo con la mano libera lo sportello di quel contenitore di odori di natura morta.
“Lo immagino il tuo risveglio!!Forse ieri sera abbiamo bevuto un po’ troppo!Beh, però diciamo che tu ti sei divertito, o almeno lo spero…” Dario lasciò in sospeso quella frase, anche se Paolo non lo poteva vedere, sapeva che stava sogghignando, “comunque ho già pranzato, tranquillo..ti do una mezz’ora e poi passo a trovarti, vedi di non addormentarti di nuovo!”
“Ok, ma cosa intend..” ma non finì la frase in tempo prima che l’amico riattaccò. Voleva chiedergli a cosa si riferisse con quel “ti sei divertito”. Pensò che lo avrebbe fatto di lì a poco, quando sarebbe arrivato a casa sua a vegetare come ogni giorno. Ora doveva riprendersi. Decise d’infilarsi in doccia e starci finché Dario non avesse suonato al suo campanello. Andò in bagno ed anche lì trovò una situazione non certo felice di ordine o pulizia. Il lavandino era cosparso di capelli, i pochi cadaveri derivanti dalle recenti docce, residui dell’ultima volta che si era rasato (e guardandosi allo specchio capì che era passata più di una settimana) e c’erano anche i resti del dentifricio in piccole gocce depositatesi un po’ ovunque sulla superficie del lavabo. Il water non era ai livelli di quelli che si possono trovare in un autogrill, ma poco ci mancava. Fortunatamente non c’erano segni di eventuali sconfitte contro il suo stomaco dopo la serata alcolica. Non si ricordava ancora se avesse vomitato, ma almeno non sembrava fosse successo nel suo bagno. Anche la questione ricordi sera prima era da definirsi dopo la doccia! Accese l’acqua calda e si rallegrò nel vedere che la caldaia non l’aveva ancora abbandonato. Erano un paio di mesi ormai che non riusciva a farsi più di due docce calde consecutive. Aveva rimandato di giorno con giorno d’avvisare il padrone di casa sul problema, ma d’altra parte nel giro di un paio di settimane l’afa avrebbe invaso la giornata e l’acqua calda non sarebbe più stata un problema. Dopo aver armeggiato con le due manopole per evitare d’ustionarsi o, al contrario, di raffreddare troppo il getto, si godette il flusso d’acqua che lo avrebbe rigenerato sicuramente. Mentre lentamente riprendeva possesso delle sue facoltà mentali, cercò di ricostruire la serata precedente. Prese lo shampoo e cominciò a massaggiarsi la testa.
Lui, Dario e Gianluca si erano visti per una pizza a casa di Paolo, guardando la partita per poi decidere dove andare. Ovviamente essendo tutti e tre squattrinati e nullatenenti, le scelte erano poche e dovevano soddisfare le due minime esigenze: alcool a poco prezzo e presenza femminile. Dopo diverse discussioni e dopo essersi spronati a vicenda per non starsene ancora in casa tutta la sera davanti ad una console, bevendo moretti fino alla nausea (cosa che recentemente gli arrivava molto presto) e devastandosi con una sequenza terribile di canne, decisero di andare in un locale appena fuori Milano, vicino all’Idroscalo, dove un loro conoscente festeggiava la laurea. Nessuno di loro era troppo entusiasta di andare a quella festa. “No dai!Non possiamo!Sai benissimo come si pavoneggerà Fulmine e come sono simpatici i suoi amici fighetti di Milano!” si lamentò Gianluca. Fulmine, in arte Giampiero De Poli, aka “hai sentito l’ultima”, era un maestro della cazzata. Un vero e proprio artista della stronzata. Riusciva a creare storie assurde per mascherare delle semplici sfortune comuni a tutti gli uomini di buona volontà o per vantarsi di un qualsiasi evento che lo ritraesse come un genio risolutore di tutti i problemi della compagnia. Un bastardino giocoso che lo inseguiva durante una delle rare uscite di jogging, diventava un rottweiler rabbioso o un lupo della steppa; un ritardo per semplice traffico o per una sveglia sentita in ritardo si trasformava nella sequenza di sfortune e coincidenze talmente incredibili che nemmeno Gene Wilder concepiva nei suoi film. Viveva anche lui nel minuscolo paesino disperso nella Brianza in cui ora Paolo si stava svegliando, ma la sua giornata era di solito divisa fra l’Università Bocconi e un piccolo bar universitario nei pressi della Pinacoteca di Brera. Ciò lo rendeva ancora più devoto alla vita mondana della città e sempre meno alle realtà del paesino. Vedeva i suoi amici “di campagna” a periodi, cioè quando non aveva voglia d’incontrare conoscenti dell’università che si laureavano prima di lui o che passavano esami che Fulmine ripeteva in continuazione senza mai ottenere un misero diciotto. In quei periodi diventava l’amicone di tutti. Presente a tutte le partitelle di calcetto, ovviamente non come giocatore per improbabili danni fisici legati ad imprese sportive descritte nel guinness dei primati, o ai pomeriggi sfatti al parchetto, in cui si dileggiava nell’antica arte dell’orazione della minchiata. Poi, passato il momento di “pericolo”, spariva per un po’, dedicandosi agli happy hour e alla sala lettura dell’università. Già perché per lui l’aula studio era inutile, pensò malignamente Paolo mentre cercava di togliersi lo shampoo finitogli nell’occhio. D’altra parte, il buon caro Fulmine, era pieno di soldi e una festa per una laurea che aspettava da almeno dieci anni, poteva voler dire alcool gratis. E ciò avrebbe soddisfatto la questione numero uno. Per le ragazze, il Magnolia era un locale perfetto, c’era l’imbarazzo della scelta e per l’entrata c’era ancora valida la tessera ARCI dello scorso inverno. “Tutto apposto!” sentenziò Dario “Adesso ci godiamo la partita, poi ci facciamo belli e ci scoliamo una bottiglia di grappa, canna durante il viaggio ed arriviamo perfettamente stonati alla sua festa!Da lì..qualsiasi cosa mi dica va bene, basta che mi offra qualche coca e Havana e lo ascolto anche per tutta la notte!” e con un sorriso simile allo stragatto di Alice, alzò la bottiglia di moretti per un brindisi. Gli altri due, suoi umili commilitoni, lo imitarono.
Sentì nuovamente suonare il telefono, ma era lontano diversi anni. Ora sì stava rilassando in doccia e niente lo avrebbe distolto da lì. D’altra parte la sua giornata dipendeva molto dall’esito di quel rigenerante passaggio. Prese il bagnoschiuma, imprecando sentendolo molto leggero. Come aveva previsto era in sostanza vuoto, ma fortunatamente c’erano diversi contenitori simili sparsi nelle mensole della doccia, tutti “quasi” completati. Collage di saponi!Ed iniziò a racimolarne da ogni contenitore. Un insieme di profumi diversi invase il bagno regalandogli nuovo piacere e un lieve benessere. E aiutandolo a ricordare altri particolari.
Come sempre al Magnolia, la coda per entrare era seconda solo a quella per parcheggiare. 5 euro un parcheggio incustodito e, comunque, ormai talmente pieno che avevano parcheggiato a quasi un kilometro dall’entrata del locale. “Che merda sto posto e il suo cazzo di parcheggio!” brontolò Gianluca “A questo punto meglio lasciarla in strada prima della rotonda…” Dario, con una bottiglia quasi finita di grappa in mano, stava guardando Gianluca con un’espressione che indicava incredulità, solo che lo sguardo, già modificato dall’alcool e dalla canna di Maria (strapiena) che si erano fumati arrivando lì, era comico e disse “Certo mio caro ministro di sto cazzo!Lasciando lì la nostra punto ultradeluxe con gli amici in divisa avremmo fatto l’affare dell’anno!Salvo che il tuo potere politico non arrivi a tanto!” e guardò Paolo in cerca di una spalla con cui sfottere l’amico. Quell’anno Gianluca Poletti, si era candidato come consigliere comunale in una lista civica (o meglio, civicamente di sinistra). La cosa lo aveva stimolato molto per tutto il periodo pre-elettorale, la cosiddetta campagna, stressandoli con comizi privati a casa di Paolo, infarciti da sproloqui dettati dalle ore piccole e dalle bottiglie vuote che si accumulavano sul tavolo. Alla fine la sua lista vinse ma lui non ebbe abbastanza voti per essere tra i consiglieri eletti. Forse fu meglio così, giacché Gianluca era famoso fra gli amici per intraprendere ogni nuova esperienza con l’entusiasmo di un ragazzino davanti alla fabbrica di Willie Wonka, per poi compiere una brusca frenata e disinteressarsene. Infatti, i suoi settimanali incontri in comune finirono molto presto, sostituiti da qualche ragazza o da una nuova mania. Ovviamente tutto ciò non gli evitò mesi di nomignoli da parte di Dario o continue battute sul suo improbabile peso politico.
“Chi altro c’è tra gli invitati che conosciamo?” sviò Gianluca.
“Non ne ho la più pallida idea…a me l’ha detto Anna..erano inviti tramite facebook o qualche altro social network che non si fa gli affari suoi..comunque lei non sarebbe venuta..perciò non so proprio chi ci sia” rispose Paolo.
“Ragazzi, mal che vada ci allontaniamo dalla gentaglia e ci buttiamo a ballare sotto un altro palco..è grande il posto!” rassicurò tutti Dario “Ma non senza qualche litro di birra o altro in corpo..gentilmente offerto dalla ditta Fulmine e Affini!” e così dicendo bevve un sorso di grappa e porse la bottiglia agli amici.
Come previsto l’entrata era affollatissima, ma scorreva velocemente. Dopo una decina di metri la fila umana era divisa in due da una transenna, a destra chi era sprovvisto di tessera annuale si fermava per l’iscrizione e il pagamento, mentre sulla sinistra chi non ne aveva bisogno, passava mostrando al servizio d’ordine la tessera valida. Passati i cancelli d’entrata un parco attraversato da una strada sterrata, accoglieva i clienti.

La prima volta che si entra al Magnolia, sembra di aver sbagliato posto, poiché non si vede nessun locale ma solo degli alberi enormi che nascondono quello che poi si trova nello spazio posteriore al parco d’entrata. Percorrendo la via ghiaiosa ci s’imbatteva spesso in un camper giallo con dei fiori dipinti, ereditati dall’arte tossica degli anni 70, addetto all’assistenza per quelle persone che incappavano in una serata volutamente troppo esagerata, abusando di alcool o di qualche chimicata tagliata male. I due ragazzi che lo occupano, volontari, fanno parte del locale tanto quanto gli alberi stessi. Sulla sinistra si trova la zona relax adibita a delle amache sorrette da strutture di metallo. Luogo molto conosciuto da Paolo e i suoi due amici, solito ad ospitare le loro carcasse d’uomo quando le serate prendevano una brutta piega, o meglio quando il mondo che vedevano iniziava a piegarsi, contorcersi. Avvicinandosi allo stabile dietro agli alberi si trovano un paio di bar esterni, uno adibito ai cocktail l’altro alla birra. Ci si ritrova, poi, proprio davanti, il locale vero e proprio, con un altro bar completo di tutto, i bagni e un’ampia stanza che d’inverno è adibita a sala concerti, mentre ora, nel periodo più caldo,ai bordi dell’estate, fa da anticamera ideale per accedere al resto del complesso, composto dal palco più grande, una serie di tendoni utilizzati come pizzeria/trattoria e qualche bancarella che vende prodotti legati al gruppo serale o al Magnolia stesso, oppure spazi offerti ad associazioni umanitarie o ambientali.
Dopo una veloce tappa al bagno, per creare nuovo spazio ad altro alcool, i tre amici si dedicarono alla ricerca di qualche viso conosciuto e che li potesse guidare verso il grosso del gruppo festante. Mentre attraversavano il salone vicino ai bagni, qualcuno strattonò la manica di Dario, che si girò di scatto come se fosse stato colpito al fianco da una freccia nella giungla.
“Daaaaariooooo!Alla fine sei venuto anche tu!!” strillò una specie di koala colorato aggrappato al braccio destro di Dario.
“Ciao Chiara..sì diciamo che siamo quasi qui per caso…” e l’espressione del suo viso era un mix tra il rassegnato e l’odio. Lo strano essere, non era per nulla un koala, era Chiara, la spina nel fianco, il tallone di Achille o, come lo definiva lui stesso, il gatto attaccato ai maroni di Dario. Lei, all’anagrafe Chiara Bergonzoni, era la figlia del Geometra Piergiovanni Bergonzoni, detentore di quasi tutti gli appalti edilizi nel raggio di diversi kilometri dal loro piccolo paese. Negli anni 80 si era fatto un certo nome come progettista di nuovi appartamenti fino ad investire direttamente nella costruzione, aprendo un’impresa edilizia propria. Dove avesse trovato tanto denaro in poco tempo, era uno dei misteri di cui un paesello come il loro si portava da anni nelle chiacchiere da bar o in quei giorni in cui il bel tempo gli permetteva di sfrecciare nelle viuzze del quartiere con la sua SLK cabrio, alimentando gli sguardi invidiosi e pettegoli dei suoi concittadini. In verità nessuno sapeva, nemmeno Paolo e i suoi amici, che il buon Piergiovanni aveva ricevuto un’ingente eredità da uno zio cui era molto affezionato in giovane età, che gli permise, negli anni d’oro del boom italiano, di chiedere finanziamenti per l’apertura della ChiaMarc Edili. In seguito la richiesta di nuovi palazzi per tutti coloro che da Milano scappavano verso la campagna, gli permise di cavalcare l’onda economica con grande intuito. Tuttavia godeva nel vedere tutti quegli occhi e quelle chiacchiere puntate su di lui, mentre si lasciava accarezzare dal vento fresco nelle giornate di sole, guidando la sua auto tedesca. Chiara, d’altra parte, dal padre non aveva ereditato troppo cervello e l’agiatezza economica l’aveva resa una persona finta e superficiale, attenta solo ai nomi cuciti sui propri vestiti, alle starlette hollywoodiane e a come essere sempre alla moda anche durante le serate in cui si trovavano in riva ad un fiume con un falò e una chitarra. Ma come spesso accade, la vita e il destino amano sconvolgere le esistenze a noi mortali, la principessina si era presa una cotta infinita per il rinnegato Dario. Solo che a differenza dei film patinati di rosa che la nostra Chiara adorava, il soggetto in questione non era per nulla propenso a nessun miracoloso cambio di vita o di modo d’essere, tipo il finale di Grease. Solo una sera ha ceduto alle avance, ubriaco, durante una festa di compleanno a casa di comuni amici, scopandosela in camera dei genitori del padrone di casa e per poi dimenticarselo quasi completamente il giorno dopo, quando lei, di tutto punto, si era presentata davanti alla sua porta con una borsa contenente spazzolino e ricambio. Il fatto che lui stesse smaltendo un dopo sbronza con i fiocchi, non lo giustifica completamente dagli insulti che la povera ragazza ricevette prima di sbatterle la porta in faccia. Ma lei non si demoralizzò comunque. Da allora, quando s’incontrano, il siparietto si ripete ed è veramente strano perché Chiara non è solo una ragazza alla moda, è una bella ragazza, una di quelle che Paolo, Dario e Gianluca definirebbero “una figa di legno”. La sua sfortuna è stata di vedere un principe azzurro nascosto dietro le fattezze di uno scaricatore di porto turco ubriaco e stanco dopo l’ennesima traversata da un mare all’altro.
“Beh teeeesoro mio..come sei arrivato qui non m’importa!” cinguettò Chiara
“Mollami Chiara!Lasciami stare questa sera..voglio solo bere e non averti tra le palle!” le rispose, suo malgrado, Dario.
“Chiara dove sono Fulmine e gli altri?” intervenne Paolo per avere l’unica informazione che voleva.
“Seguitemi” e prese Dario per un polso facendosi inghiottire dalla massa di gente che si stava spostando verso il palco più grande. Era orario di concerto e gli Africa Unite attiravano sempre un bel po’ di persone. Si fecero strada fino ai tavoli occupati dagli invitati del festeggiato cercando di rimanere in disparte e, nel contempo, avvicinarsi ai vassoi pieni di bicchieri di birra. Ma Fulmine li vide.
“Ma guarda un po’ chi si è spinto dalla provincia!” urlò come se loro si trovassero ancora al parcheggio anziché lì a pochi metri “Non pensavo di vedervi questa sera…v’immaginavo sdraiati sul tuo divano, Paolo, a farvi di xbox!” e sfoderò uno dei suoi sorrisi da venditore migliori che aveva.
Dario vide la sua mano afferrare una delle sedie di legno e spaccarla sul lato sinistro della faccia di Fulmine. Vide la mandibola spostarsi innaturalmente dalla parte opposta, scaricando come una marmitta ingolfata bava e denti, sangue e pelle. Lo vide cadere a terra e si sentì urlagli contro “Cazzone Bastardo che fino a due giorni fa eri anche tu in PROVINCIA su quel CAZZO DI DIVANO!” . Dario vide tutto ciò, ma solo nella sua mente, per fortuna, e si chiuse la bocca con una birra gelata.
“Beh Fulmine, sai come siamo fatti!Piuttosto!Congratulazioni per la laurea…finalmente!” cercò di sviarlo Paolo
“Certo che so come siete fatti..anzi strafatti!!” e condì il tutto con una risata finta ed impostata “Grazie comunque, sono contento che siate venuti…ora se volete scusarmi, ho delle ragazze da importunare” e strizzò loro l’occhio girandosi verso un gruppo di suoi amici, sponsorizzati Prada e D&G, ma prima di lasciarli aggiunse “Guardate bene sul tavolo ci sono dei bottoni, offro io questa sera!Sono un paio a testa!”
Dario, con gli occhi accesi da una nuova linfa, disse “E noi berremo alla tua, fratello!”
Così dicendo ritornò al tavolo con le birre e vide una ciotola con un sacco di piccole fishes di plastica di colori diversi, con sovraimpresso il logo del Magnolia. Erano i “gettoni” da consegnare al bancone per le consumazioni. Prima ancora che qualcuno potesse accorgersene ne prese tanti da dimezzare il contenuto della ciotola e suggerì agli amici “Su ragazzi, prendete le vostre consumazioni!” e il sorriso da joker tradì la realtà della battuta.
Paolo e Gianluca si guardarono complici ed imitarono l’amico.

Ora il senso di post sbornia aveva un significato, un’origine. Con quel carico di free drink si erano sicuramente devastati per le ore successive ed il fatto che lui non ricordasse molto non era così strano. Solitamente l’alcool aveva questo effetto quando se ne abusava. E Paolo lo conosceva bene. Spense l’acqua e prese l’accappatoio. Finalmente si sentiva meglio, più sveglio e pronto a
“Ehiii, hai finito?Posso usare io la doccia?..potevamo anche lavarci insieme!”
Si bloccò…spalancò gli occhi per lo stupore, si concentrò su ogni suono per capire se era diventato pazzo..se sentiva voci femminili nella sua testa…o se fosse la televisione…anche se la coincidenza legata alla doccia lo fece subito desistere da questo pensiero.
“Sei svenuto?!Sto parlando con te Paolo!Ovviamente scherzavo!” e rise.
Veniva dalla camera. Non dalla sua testa. Era già qualcosa.
Come il primo esploratore della tomba di Tutankhamon, Paolo si avviò in accappatoio, ancora gocciolante, verso la stanza da letto, quasi vivendo un momento distaccato tra mente e corpo.
Si poteva vedere mentre, incerto, passo dopo passo, usciva dal bagno per affacciarsi alla porta dell’altra camera, quella con il fantasma. Altro non poteva essere.
La prima cosa che pensò è che non si trattava di un fantasma. Ed anche se lo fosse stato, beh, diamine, era proprio un gran bel fantasma.
“Buongiorno” riuscì a dire senza balbettare.
L’ectoplasma era nel suo letto (avrebbe poi dovuto ricostruire i suoi passi al risveglio per capire come fosse stato possibile non vederla), arrotolata fino al collo nel lenzuolo, con le spalle deliziosamente scoperte e candidamente nude. Gli occhi, benché tradissero una serata da ore piccole, erano di un verde intenso (troppo intenso per un essere incorporeo) e lo guardavano senza malizia. Una folta chioma nera si distribuiva in boccoli liberi sul cuscino. Gli sorrideva, mostrando una dentatura bianca e perfetta. Facendo ciò, inclinò leggermente la testa e subito un flash d’immagini invase la mente di Paolo. Lei che gli sorride nello stesso modo con un bicchiere di birra in mano ringraziandolo e presentandosi. Loro che ballano insieme e sempre più vicini. Immagini confuse di baci scambiati sdraiati nel prato del parco del Magnolia. Poi nulla d’altro. Ci doveva lavorare.
“Buongiorno a te!Come dicevo..posso farmi una doccia anch’io?”
“Ce-Certo, ti prendo un paio di asciugamani..e te li lascio in bagno” cercò di non tradirsi, ma pensava che la sua espressione mentre la guardava fosse impossibile da mascherare.
“Mmmh…graaaziee..adesso mi alzo..” quasi sussurrò lei, stiracchiandosi ancora assonnata, nel letto.
Paolo si diresse verso l’armadio che conteneva gli asciugamani di riserva. Era un automa. Si muoveva involontariamente mentre cercava almeno di ricordare il nome della sua ospite.
Il fantasma che non era un fantasma lo abbracciò da dietro mentre era immerso nei suoi pensieri. Si dovette concentrare al massimo per evitare di urlare.
“Avresti anche una maglietta da prestarmi?..quella che indossavo ieri sera non penso sia utilizzabile..anche perché non so dov’è!” sentiva le sue labbra vicino all’orecchio e i suoi seni, avvolti nel lenzuolo, gli si appoggiavano sulla schiena. I capelli, lunghi, le ricadevano sulle spalle e, data la vicinanza, lo sfioravano sul collo.
“Apri pure l’armadio e scegline una e se ti serve altro non farti problemi” troppo formale pensò, cercando di sciogliersi un po’.
Lei gli schioccò un bacio sulla guancia e si diresse in bagno con gli asciugamani che lui teneva in mano.
Caffè!Si ordinò.
Scese al piano di sotto e cercò la moka. Mentre puliva i residui di caffè vecchio all’interno per sostituirlo con quello nuovo, si concentrò per dare seguito ai ricordi della serata precedente.  Era sicuro, ora, di averla conosciuta mentre prendeva l’ennesima birra al bancone. Aprì il barattolo di metallo della Illy e sorrise vedendo che era pieno per metà. Solitamente in questi momenti la fortuna non lo aiutava. Quello era un segno, si disse, ora riuscirai a mettere tutto a fuoco e
Suonò il campanello ed ora, perso nei suoi pensieri di rinascita mentale, Paolo non riuscì a trattenere l’urlo che prima aveva evitato. In verità si trattò di un suono simile a quello che fa un bambino quando si spaventa per un BU di un adulto. Ma la somma delle emozioni degli ultimi minuti era oltre il limite che potesse sopportare dopo un risveglio.. difficile. Riprese fiato pensando che fortunatamente Cristina stava facendo la doccia e
..si colpì la fronte con la mano sinistra..rovesciando un po’ di caffè rimasto nel cucchiaino che aveva tra le dita..
Cristina! Ma certo ecco come si chiamava! Dentro di sé esultò come uno scolaretto quando risponde alla domanda della maestra che nessuno, in classe, conosceva. Si diresse verso il citofono con un sorriso di vittoria e compiacimento, che crollò come uno di quei palazzi che sono demoliti e mandati in diretta tv, quando vide nella telecamera in bianco e nero il faccione, deformato dalla lente, di Dario. Prese la cornetta tra le mani.
“Sali”
“Buongiorno anche a te!”
Ruotò la serratura per aprirla e tornò in cucina dove la sua caffettiera attendeva che lui finisse di caricarla. La richiuse e la poggiò sul fornello, avviando il gas. Prese poi un sacco di plastica per la raccolta differenziata e cominciò ad accumulare i cartoni di pizza che c’erano sul ripiano davanti a lui. Entrò in quel momento Dario.
“Ciao Paolo”
“Hola”
“Ripreso dal coma?Ma quanto cazzo abbiamo bevuto?!Mi uscivano free drink da tutte le tasche, devo averne ancora  a casa nei pantaloni…chissà se Fulmine si è accorto di quanti ne abbiamo presi da quella ciotola!Ahahah!E tu?!?ma dove sei finito?Sei sparito e fortunatamente abbiamo trovato un passaggio..”
Paolo lo interruppe portandosi l’indice sulle labbra in segno di silenzio e sgranando gli occhi indicando il piano superiore di casa sua.
Dario, dapprima lo guardò con la faccia da punto interrogativo, poi realizzando cosa l’amico stesse insinuando, la trasformò con un sorriso compiaciuto e sornione.
“Ma beeeeeneeee!” crogiolò “quindi non siamo stati soli tutta la seraaa!”
“Smettila, lascia stare…faccio anche fatica a ricordare…”
“Ti capisco, ma spero che almeno il nome tu lo sappia!”
“Per chi mi hai preso animale!Certo che so come si chiama!Cristina!” cercando di non lasciar trapelare nessun indizio del contrario.
“Per chi ti ho preso?!Per un alcolizzato”
“Dario, detto da te, alcolizzato diventa quasi un complimento!Comunque, non scherzo quando dico che ho ricordi confusi. Ora sta facendo una doccia, evita commenti idioti o esageratamente scurrili per un po’!”
“Zi Buana biango…bovero Dario fa sempre cosa badrone dice!”
“See, fai pure lo spiritoso!Vuoi del caffè?”
“Volentieri!”
“Figuriamoci, piuttosto, Gianluca dov’è?”
“Non saprei.Le ragazze a cui abbiamo scroccato il passaggio erano prese bene..io ero ubriaco e lui pure..alla fine ha voluto scendere con una di loro a Cimiano, dicendo che avrebbe preso la metro”
“La metro in piena notte?!”
“Beh ti ho detto che ero ubriaco”
“Già, me lo hai detto”

Salite


Un altro dolore. Una fitta al polpaccio destro ad ogni colpo di pedale. Ormai non ci fa più caso. Lo aggiungerò alla lista, altra tacca sul manubrio, pensa. Il vento gli taglia le labbra e la pioggia che aveva trovato nei chilometri precedenti gli ha lasciato un ricordo bagnato su tutto il corpo. Ma non può certo mollare ora. Chi lo insegue è a poco più di un minuto di distanza, rallentare può voler dire solo una cosa: sconfitta.

Non sente cosa gli dicono tutti i tifosi sparsi intorno a lui. Li vede appannati, macchie colorate sullo sfondo bianco della neve scesa impietosa per tutta la mattinata. In verità non sente più nemmeno le gambe. Ogni tanto abbassa lo sguardo quasi per certificare a sé stesso che ancora siano lì a spingerlo su quell’interminabile salita. Si muovono da sole, come uno di quei giocattoli di suo figlio caricati a molla, capaci di girare su sé stessi per diversi minuti. E’ da solo ormai da oltre 50 km, da quando senza ragionare era partito in fuga. Una volta lasciato andare, si era detto che quella tappa doveva essere sua. Loro.

Prende la borraccia per l’ultimo sorso e gettandola ai bordi della strada sente un crampo all’avambraccio. Sorride. Le tacche sul manubrio aumentavano. La vita di un ciclista è così, spesso ti ritrovi da solo in mezzo alla gente, solo tu puoi capire il tuo sforzo, solo tu puoi sapere se ce la farai. S’immagina i commenti alla tivù: ha una bella pedalata, ce la può fare/è chiaramente in crisi rischia di essere ripreso dagli inseguitori molto presto. Nulla conta veramente. Perché nel paesaggio uniforme di una montagna completamente ricoperta di neve, con le forze allo stremo, non esistono tattiche, strategie o particolari capacità tecniche. Devi solo salire fino a quel maledetto traguardo.

Il passaggio sotto il cartello dell’ultimo kilometro è come una botta gratuita d’adrenalina, che però finisce subito, quando si ricorda che ora la salita aumenterà d’intensità. Altro scatto sui pedali, altri dolori. Sente le forze che lo stanno abbandonando, gli ultimi residui presto finiranno. Allora cerca nella sua mente qualcosa per stare a galla, per non cedere. L’immagine di suo figlio addormentato tra le braccia della madre lo colpisce con irruenza, svegliandolo, aprendo in lui una breccia calda e rigenerante. Ecco, si dice, ecco perché lo faccio. L’immagine cambia, ora il piccolo Paolo sta salendo sulla sua minuscola bicicletta, ha ancora le rotelle. Quando torno a casa gliele tolgo, si ripete inconsciamente.

750 al traguardo. Uno spettatore gli si avvicina e gli dice qualcosa. Lui più per abitudine che per comprensione della domanda risponde “lenta ma lunga”. E sente le mani dell’uomo appoggiarsi alla sua schiena e sorreggerlo, più che spingerlo, per diversi metri. Pochi, al confronto di tutti quelli da fare, ma piacevoli nelle condizioni in cui si trova.

500 metri di agonia. La pendenza è oltre il 14%, ora l’acido lattico delle gambe non esiste più e già sa che appena si fermerà non riuscirà nemmeno a camminare. Ma non importa. Non adesso. Quella bici che sta diventando una sua parte complementare, lo sorreggerà finchè lui le darà vigore tramite i pedali. Al dopo ci penserà una volta arrivato. Paolo e Marika lo staranno guardando in tv non deve farli preoccupare troppo. Le smorfie di dolore e le abrasioni sul volto portate dal freddo sono una costante di tutte le gare con un clima infame. Pensi che tutto sia contro di te, ma poi capisci che è solo l’ennesima sfida che lo sport che ti sei scelto ti mette davanti.

250 ancora da fare. Ogni tanto la bici sembra impennarsi davanti a lui, come un cavallo imbizzarrito che vuole disarcionare il suo cavaliere. Stanco di andare avanti. E’ solo una sensazione, stai tranquillo, siamo arrivati. Gli occhi bruciano ma non gli servono. Non più di tanto.

100 fottutissimi metri e sarà fatta. In testa ancora Paolo mentre apre i regali per il quarto compleanno. Poi mentre entra in casa coperto di fango con lo sguardo innocente di chi sa di aver fatto un casino.

50 e vede il traguardo..è davanti lui. Un fortissimo crampo gli aggredisce la gamba dolorante, gliela blocca. Una paura tremenda lo invade, sente l’equilibrio mollarlo e sbanda leggermente con la bicicletta. No, non ora, si urla nella mente, non puoi farmi questo ora. Poi lei appare davanti a lui. Proprio quando pensa di non riuscire a riprendere la via verso l’arrivo, lei gli sorride con quelle labbra che tante volte ha baciato perdendocisi come se fosse la prima volta. Quegli occhi che ama e che non riesce a scordarsi. Lo guarda e gli dice di non cedere ora. Ultime pedalate, ultime energie..poi le lacrime e le braccia al cielo sotto quel bellissimo arco rosa e la bandiera a scacchi.

Cade letteralmente tra le braccia del suo preparatore che con la delicatezza con cui si sorregge un infante, lo aiuta a scendere dalla bici e lo sdraia a terra. Lui piange, non riesce a fermare le lacrime. Lo guarda e gli dice “Senza Marika non ce l’avrei fatta”. L’uomo lo stringe a sé, senza dire niente.Llo rialza e lo accompagna verso il tepore di un tendone e del the caldo.

Alla tivù il telecronista, con evidente commozione, ricorda “..e sicuramente il saluto finale era per la moglie e il piccolo figlio persi un anno fa in un terribile incidente d’auto…” 

martedì, aprile 24, 2012

Se la madre degli stupidi è sempre gravida..STERILIZZIAMOLA!

Non se ne può più.La dilagante ignoranza che si sta espandendo nel belpaese,sta mostrando connotati preoccupanti.Episodi di sfoggio di stupidità si susseguono senza sosta,mentre nelle sale italiane Vicari tenta di mostrare la faccia peggiore della repressione violenta e fascista a cui il nostro stato ci sta abituando.Proprio da quel fronte,dalle vuote menti neo-fasciste,arrivano i maggiori esempi di morte culturale.Poche settimane fa dei manifesti promossi dalle fazioni di destra più estremiste,con a capo il nobel Storace,mostravano una foto raffigurante anarchici greci con striscioni in cui era riportata la frase "Stasera muore il fascismo".Il problema è che tale frase viene riportata,giustamente,in greco e nessuno dei furbissimi di cui sopra si è preso la briga di tradurla prima di affiggerla in tutta Roma con slogan fascisti.Oggi leggo che i nuovi manifesti per "commemorare" il 25 aprile e la repubblica di Salò,riportano la frase "Gli eroi son tutti giovani e belli" di Guccini, da "La locomotiva".Ennesima dimostrazione di inquietante dilagare di pura e semplice ignoranza.Una volta,gli avversari politici offrivano degli scontri dialetticamente duri,di spessore.C'era una sorta di rispetto culturale.Ora sembra di parlare con dei porci dotati di favella (e non escludo che se i porci potessero parlare probabilmente sarebbero in possesso di argomentazioni più profonde!).
Sapere che dei ragazzi di vent'anni o poco più,inneggino al neo-fascismo,mi fa venire i brividi per tutta la schiena.E' una cosa a cui non riesco ad abituarmi.Come se avessero preso un libro di storia(okok..immaginarli con un libro in mano è utopico..lo ammetto),cancellando interi capitoli,disintegrando la parte più nera del retaggio europeo.A questo punto,la speranza di un miglioramento è sempre più labile.Anche se non morta del tutto!

Buon 25 Aprile a tutti!





Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva 
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva 
e sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria: 
"Fratello, non temere, che corro al mio dovere! 
Trionfi la giustizia proletaria! 
Trionfi la giustizia proletaria! 
Trionfi la giustizia proletaria!" 
Francesco Guccini, La Locomotiva, 1972 (album: Radici)

martedì, novembre 29, 2011

Roccia

Fessure.Piccole, impercettibili discrepanze nella roccia,eppure necessarie,ricercate.Da mani, piedi e occhi che si spingono al limite, all'apice di una parte di parete.Per molti sono un ammasso di roccia, per noi la sfida aperta con la montagna,la voglia di andare sempre più in alto per dimostrare a noi stessi soltanto, che nulla è impossibile, nulla è irraggiungibile.Quando poi arrivi là, in alto, lasciandoti a terra problemi,pensieri e tensioni,capisci il valore di ciò che fai,il reale premio.Basta guardarsi alle spalle ed ammirare la cornice in cui sei immerso e vivere torna ad avere un significato più profondo e vicino alla gioia.Guardi negli occhi coloro che sono con te e leggi le stesse emozioni.
Alla sera,le mani distrutte,le braccia e le gambe bruciano,ma il sorriso ancora non si è spento sulle tue labbra.E non vedi l'ora di riprendere.

sabato, luglio 30, 2011

Ma perchè stanno tutti in Italia questi qui?!

Più volte sulle pagine di questo blog, mi sono trovato a segnalare episodi di razzismo e di cieca ignoranza nei confronti di coloro che non sono ritenuti all'altezza dell'elite del nostro parlamento. Purtroppo mi ero scordato di Borghezio. Ovviamente tutti sapete che cosa ha recentemente dichiarato commentando i fatti di Oslo.Beh, forse non tutti sanno che il genio della Lega (ripreso anche da quel fenomeno di Calderoli, il che la dice lunga sulla sua esternazione), ha un passato veramente degno di un parlamentare moderno (fonte Wikipedia):

L'11 luglio 1976 viene fermato dalle autorità a Ponte San Luigi, valico di confine nei pressi di Ventimiglia, e trovato in possesso di una cartolina firmata "Ordine Nuovo" ed indirizzata "al bastardo Luciano Violante" (magistrato allora impegnato in inchieste contro l'eversione di matrice neofascista). Il testo del messaggio, accompagnato da alcune svastiche e da un "Viva Hitler", era il seguente: "1, 10, 100, 1000 Occorsio". Vittorio Occorsio, anch'egli giudice protagonista della lotta contro il terrorismo nero, era stato ucciso appena due giorni prima in un agguato.

Nel 1979 nel corso delle indagini per "truffe e strane operazioni finanziarie che hanno per sfondo la fantomatica cooperativa «Aurora» di Borgaro...il giudice istruttore Accordon ha emesso sei mandati di cattura eseguiti dai carabinieri del reparto operativo, tra i quali Mario Borghezio". «La Stampa 22 febbraio 1979»

Nel 1993 è stato condannato a pagare una multa di 750.000 lire (circa €387) per violenza privata su un minore in relazione ad un episodio risalente al 1991, quando aveva trattenuto per un braccio un venditore ambulante marocchino di 12 anni, illegalmente in Italia, per consegnarlo ai carabinieri.

Nel 1998 fonda insieme a Max Bastoni, Omar Tonani ed Enrico Pau i Volontari Verdi, associazione vicina alla Lega Nord passata alla storia per le famosissime ronde, che presero il via proprio da quella fondazione.

Il 1º luglio 2000, al termine di una fiaccolata antidroga del «Coordinamento Piemonte dei volontari verdi», Borghezio viene ritenuto responsabile insieme ad altri sette leghisti dell'incendio scoppiato presso i pagliericci di alcuni immigrati che dormivano sotto il ponte Principessa Clotilde a Torino. Per questo gesto verrà rinviato a giudizio e condannato in via definitiva dalla Cassazione nel luglio 2005 a due mesi e venti giorni di reclusione, commutati poi in una multa di 3.040 euro per concorso nel reato di danneggiamento seguito da incendio. Secondo quanto riferito dallo stesso Borghezio l'incendio sarebbe stato invece causato accidentalmente da una torcia caduta di mano ad un militante leghista durante la ronda.

Il giorno 11 settembre 2007, 6º anniversario dell'attentato alle Torri Gemelle, l'eurodeputato leghista è stato fermato dalla polizia prima di una manifestazione contro l'islamizzazione dell'Europa a Bruxelles. Borghezio racconta di essere stato malmenato, prima di essere fermato insieme a un'altra ventina di persone. In realtà i fermati sono oltre 150, compresi il leghista, il leader e il presidente del partito fiammingo di estrema destra, il Vlaams Belang, Filip Dewinter e Frank Vanhecke. Tutti i fermati sono stati caricati su furgoni con i vetri oscurati e portati al Palazzo di Giustizia. Poco dopo le 18 Borghezio ha lasciato il palazzo di giustizia di Bruxelles. La manifestazione anti-Islam era stata vietata dal comune di Bruxelles, nonostante ciò gli organizzatori (riuniti dalla sigla Stop the islamization of Europe) avevano annunciato che l'avrebbero comunque attuata. Il 21 marzo 2008 ha partecipato al "Congresso contro l'islamizzazione" a Colonia indetto dal movimento locale di destra Pro Köln. Il sindaco di Colonia, Fritz Schramma, definì i manifestanti dei non benvenuti "facinorosi camuffati da benpensanti, razzisti in abiti civili". La polizia tedesca sciolse la manifestazione per ragioni di ordine pubblico, trascinando via a forza Borghezio dal palco. Roberto Calderoli e Roberto Castelli presero le distanze sostenendo che la partecipazione di Borghezio era avvenuta "a titolo personale".

Nel 2009 è apparso in una videoinchiesta di Canal+ dal titolo Europe: ascenseur pour les fachos (Europa: ascensore per i fascisti). Invitato nella sua veste di parlamentare europeo[senza fonte] dalla Lega Nord ad un «incontro di formazione» del movimento nizzardo identitario francese'Nissa Rebela' (considerato di estrema destra dai media francesi), lo si nota al termine del suo accorato intervento mentre si ferma a parlare con alcune persone dando loro dei consigli per conquistare il potere gradualmente, penetrando nelle istituzioni, senza però essere etichettati come fascisti. L'operatore riesce ad avvicinare Borghezio, che dice ad alcuni militanti:
« Bisogna rientrare nelle amministrazioni dei piccoli comuni. Dovete insistere molto sull'aspetto regionalista del movimento. Ci sono delle buone maniere per non essere etichettati come fascisti nostalgici, ma come un nuovo movimento regionale, cattolico, eccetera, ma sotto sotto rimanere gli stessi. »
(Mario Borghezio)
Allo stesso incontro Borghezio propose: «una sorta di scuola di formazione transnazionale per i quadri dei vari movimenti europei facenti riferimento al radicalismo identitario. Borghezio nel suo intervento, ripreso dalle telecamere di una rete della tv elvetica, non parla di una semplice scuola per dirigenti, ma per veri e propri "soldati" che "tengano testa fisicamente ai nemici".»

Il 27 maggio 2011, commentando l'arresto del generale serbo Ratko Mladić, accusato di genocidio e presunto responsabile del massacro di Srebrenica in cui persero la vita oltre 8.000 civili, ha dichiarato: "Non ho visto le prove, i patrioti sono patrioti e per me Mladić è un patriota. Quelle che gli rivolgono sono accuse politiche"

Che dire!Un curriculum perfetto!


"Oggi si fa la storia. Questo giorno verrà ricordato. Tra molti anni i giovani chiederanno, meravigliandosi, di questo giorno. Oggi si fa la storia e voi ne fate parte. Seicento anni fa, quando altrove fu addossata loro la colpa della Peste Nera, Casimiro cosiddetto il Grande disse agli ebrei che potevano venire a Cracovia. Essi vennero. Trascinarono i loro averi in città. Si sistemarono. Misero radici. Prosperarono. Negli affari, nella scienza, nell'istruzione, nelle arti. Arrivarono qui senza niente, niente e fiorirono. Per sei secoli c'è stata una Cracovia ebrea. Riflettete su questo. Da stasera quei secoli sono una diceria. Non ci sono mai stati. Oggi si fa la storia." (Amon Goeth)
Da Schindler's List, 1993
p.s. nel frattempo un'altra grande nostra parlamentare (segno di virtù morale e onorabile carriera da umile miliardaria pagata dallo stato) ha recentemente dichiarato "che se il centrosinistra dovesse vincere ci sarebbero diversi casi Amy Winehouse"..cara Gabriella..te preferivamo quando stavi in tivvì..almeno lì potevamo cambiare canale!(mi spiace che nell'intervista ci sia la voce di un perfetto imbecille come Klaus Davi)