mercoledì, dicembre 02, 2009

La testa (persa) della corsa

Ricordo che la prima vera grande emozione da tifoso del ciclismo l’ho avuto con Marco Pantani nel ’98. Al Giro d’Italia. Erano anni che mio padre, corridore amatoriale e adoratore di quel ciclismo fatto di sudore e fatica, di gambe distrutte dalle salite che ancora pompano sui pedali, mi narrava di epiche corse divenute ai miei occhi, ancora privi della tecnologia della rete, battaglie mitiche tra eroi fatti di ferro e tuoni che si combattevano per la gloria di una vetta. Perciò per tutta l’infanzia ho sempre seguito volentieri le competizioni ciclistiche, dal Giro al Tour, alla Milano-San Remo e i Mondiali ed ancora oggi, quello sport mi prende diversamente da altri forse anche perché crea involontariamente un forte legame paterno. Ma mai avevo trovato il mio “eroe”, erano tutti corridori che piacevano a mio padre e come tali li seguivo. Marco Pantani lo sentivo mio. Piaceva, ovviamente, ad entrambi, ma era un comune piacere e non osmotico.

Rammento che nell’estate del ’98, ero solito videoregistrare la tappa per mio padre, che per lavoro il più delle volte se la perdeva, per poi rivederla sinteticamente con lui la sera, prima delle uscite con gli amici. Fu il giorno della terzultima tappa del giro, tra Mendrisio e Lugano, che precedeva la crono finale prima della sfilata milanese. Era stato un giro testa a testa tra Pantani e Tonkov, Marco era in rosa ma il distacco era veramente esiguo, soprattutto perché il russo era più forte e disciplinato in cronometro. Mi alzai per far partire il videoregistratore per i consueti ultimi kilometri e non riuscì più a muovermi. Una volta che il tasto rec avviò la registrazione e i miei occhi tornarono sullo schermo, Pantani iniziò con i primi attacchi, prima gettando la mitica bandana, poi gli occhiali, poi la rabbia. Gli anni precedenti lo avevano visto vittima di incidenti stradali mentre si allenava, gatti grigi che lo facevano cadere in gara e preparazioni altalenanti. In quegli scatti, che sembravano cartucce preparate con cura da tempo, lasciate lì per il duello migliore, il più bello, quegli scatti, che tagliavano il respiro sotto un sole caldo ed impietoso, che anche da casa sembrava senza ossigeno, quegli scatti sono entrati nella mia vita in quel momento e non se ne sono mai più andati. Alla fine Tonkov, dopo l’ennesimo affondo cedette e non vide più la schiena del “Pirata”, che vinse tappa e tour, dato che anche il giorno dopo riuscì a tenersi dietro il suo avversario in cronometro. Ma la vittoria era arrivata con quell’ultimo strappo e lo si leggeva nella faccia di Tonkov che molla, lascia, alza bandiera bianca. La sera stessa non stavo nella pelle e benché rividi la tappa e gli ultimi minuti per diverse volte prima dell’arrivo di mio padre, non vedevo l’ora di leggere nella sua faccia quello che sicuramente c’era nella mia quel pomeriggio ormai lontano. Poi umiliò anche un certo tedesco al Tour, vincendo un'accoppiata senza precedenti.


Dopo allora, Marco Pantani è stato distrutto. Forse per un potere troppo alto che non voleva il ciclismo così seguito a discapito di altri più remunerativi sport. Forse per la sua fragilità. Forse solo per fatalità. Non è questa la sede e non lo sarà mai, Marco Pantani per me è stato e sempre sarà, solo, “Il Pirata”. Ma con la sua eclisse e con gli anni successivi un nome ha preso piede nel ciclismo e, ormai, viene quasi usato come cinico sinonimo: doping. Purtroppo i casi di ciclismo infetto si sono susseguiti in questo decennio con scala sempre più ampia e situazioni al limite dell’imbarazzo: squadre perquisite la notte a sorpresa, test effettuati anche fuori dal periodo di gare, esami del sangue esposti online per dimostrare la proprio innocenza. Non dico non sia giusto ma non oso pensare cosa succederebbe se fosse fatto in altri ambienti sportivi (e mi fermo).


Leggiamo oggi, da Repubblica, la testimonianza di un giovane dilettante juniores che alla vigilia della prima vera gara da professionista, vede le sue speranze e i suoi sogni, le sue fatiche e i suoi sacrifici, infranti, disintegrati, da una siringa e dalla triste verità sputatagli in faccia direttamente dal suo nuovo preparatore atletico che, con una certa insolenza, rimane stupefatto che il giovane sia “tutta farina del suo sacco”, che non abbia mai chiesto aiuti farmacologici e che, inoltre, insolenza più grande, ne rimanga stupefatto. Ora quel ragazzo ha abbandonato il ciclismo, spero ci ripensi, mi auguro sinceramente che lo faccia. Ma spero anche che abbia il coraggio di denunciare, di condannare e di aiutare ancora di più le federazioni e le forze dell’ordine. Perché io rivoglio le sensazioni forti e vere che questo sport negli anni ha regalato a mio padre, a me e a tutta quella “carovana” di personaggi che ogni anni annidano le strade impervie dei tapponi di montagna, che ci sia sole o grandine. Rivoglio l’onore di uno sport epico, solitario e coraggioso. Dove non hai tempo di pettinarti i capelli o lamentarti per un’infrazione. Dove la moviola non serve a nulla, ma serve solo il cuore, tanto cuore!

“Sono seduto in cima a un paracarro
e sto' pensando agli affari miei
tra una moto e l'altra c'e' un silenzio
che descrivere non saprei.
Oh quanta strada nei miei sandali
quanta ne avra' fatta Bartali
quel naso triste come una salita
quegli occhi allegri da italiano in gita
e i francesi ci rispettano
che le balle ancor gli girano
e tu mi fai dobbiamo andare al cine
vai al cine vacci tu
Za za za zaz!”
(Bartali, Paolo Conte, 1979)

p.s. è fantastico vedere come un “quotidiano sportivo” nonchè maggiore sponsor della gara (quasi omonima) in rosa, come la Gazzetta dello sport, ancora non riporti nulla sul suo sito, soprattutto dato che il compianto direttore Cannavò era un noto amante delle due ruote a pedali…speriamo domani di leggere qualcosa sul giornale stampato..almeno prima di pagina 25!

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