lunedì, maggio 20, 2013

Salite


Un altro dolore. Una fitta al polpaccio destro ad ogni colpo di pedale. Ormai non ci fa più caso. Lo aggiungerò alla lista, altra tacca sul manubrio, pensa. Il vento gli taglia le labbra e la pioggia che aveva trovato nei chilometri precedenti gli ha lasciato un ricordo bagnato su tutto il corpo. Ma non può certo mollare ora. Chi lo insegue è a poco più di un minuto di distanza, rallentare può voler dire solo una cosa: sconfitta.

Non sente cosa gli dicono tutti i tifosi sparsi intorno a lui. Li vede appannati, macchie colorate sullo sfondo bianco della neve scesa impietosa per tutta la mattinata. In verità non sente più nemmeno le gambe. Ogni tanto abbassa lo sguardo quasi per certificare a sé stesso che ancora siano lì a spingerlo su quell’interminabile salita. Si muovono da sole, come uno di quei giocattoli di suo figlio caricati a molla, capaci di girare su sé stessi per diversi minuti. E’ da solo ormai da oltre 50 km, da quando senza ragionare era partito in fuga. Una volta lasciato andare, si era detto che quella tappa doveva essere sua. Loro.

Prende la borraccia per l’ultimo sorso e gettandola ai bordi della strada sente un crampo all’avambraccio. Sorride. Le tacche sul manubrio aumentavano. La vita di un ciclista è così, spesso ti ritrovi da solo in mezzo alla gente, solo tu puoi capire il tuo sforzo, solo tu puoi sapere se ce la farai. S’immagina i commenti alla tivù: ha una bella pedalata, ce la può fare/è chiaramente in crisi rischia di essere ripreso dagli inseguitori molto presto. Nulla conta veramente. Perché nel paesaggio uniforme di una montagna completamente ricoperta di neve, con le forze allo stremo, non esistono tattiche, strategie o particolari capacità tecniche. Devi solo salire fino a quel maledetto traguardo.

Il passaggio sotto il cartello dell’ultimo kilometro è come una botta gratuita d’adrenalina, che però finisce subito, quando si ricorda che ora la salita aumenterà d’intensità. Altro scatto sui pedali, altri dolori. Sente le forze che lo stanno abbandonando, gli ultimi residui presto finiranno. Allora cerca nella sua mente qualcosa per stare a galla, per non cedere. L’immagine di suo figlio addormentato tra le braccia della madre lo colpisce con irruenza, svegliandolo, aprendo in lui una breccia calda e rigenerante. Ecco, si dice, ecco perché lo faccio. L’immagine cambia, ora il piccolo Paolo sta salendo sulla sua minuscola bicicletta, ha ancora le rotelle. Quando torno a casa gliele tolgo, si ripete inconsciamente.

750 al traguardo. Uno spettatore gli si avvicina e gli dice qualcosa. Lui più per abitudine che per comprensione della domanda risponde “lenta ma lunga”. E sente le mani dell’uomo appoggiarsi alla sua schiena e sorreggerlo, più che spingerlo, per diversi metri. Pochi, al confronto di tutti quelli da fare, ma piacevoli nelle condizioni in cui si trova.

500 metri di agonia. La pendenza è oltre il 14%, ora l’acido lattico delle gambe non esiste più e già sa che appena si fermerà non riuscirà nemmeno a camminare. Ma non importa. Non adesso. Quella bici che sta diventando una sua parte complementare, lo sorreggerà finchè lui le darà vigore tramite i pedali. Al dopo ci penserà una volta arrivato. Paolo e Marika lo staranno guardando in tv non deve farli preoccupare troppo. Le smorfie di dolore e le abrasioni sul volto portate dal freddo sono una costante di tutte le gare con un clima infame. Pensi che tutto sia contro di te, ma poi capisci che è solo l’ennesima sfida che lo sport che ti sei scelto ti mette davanti.

250 ancora da fare. Ogni tanto la bici sembra impennarsi davanti a lui, come un cavallo imbizzarrito che vuole disarcionare il suo cavaliere. Stanco di andare avanti. E’ solo una sensazione, stai tranquillo, siamo arrivati. Gli occhi bruciano ma non gli servono. Non più di tanto.

100 fottutissimi metri e sarà fatta. In testa ancora Paolo mentre apre i regali per il quarto compleanno. Poi mentre entra in casa coperto di fango con lo sguardo innocente di chi sa di aver fatto un casino.

50 e vede il traguardo..è davanti lui. Un fortissimo crampo gli aggredisce la gamba dolorante, gliela blocca. Una paura tremenda lo invade, sente l’equilibrio mollarlo e sbanda leggermente con la bicicletta. No, non ora, si urla nella mente, non puoi farmi questo ora. Poi lei appare davanti a lui. Proprio quando pensa di non riuscire a riprendere la via verso l’arrivo, lei gli sorride con quelle labbra che tante volte ha baciato perdendocisi come se fosse la prima volta. Quegli occhi che ama e che non riesce a scordarsi. Lo guarda e gli dice di non cedere ora. Ultime pedalate, ultime energie..poi le lacrime e le braccia al cielo sotto quel bellissimo arco rosa e la bandiera a scacchi.

Cade letteralmente tra le braccia del suo preparatore che con la delicatezza con cui si sorregge un infante, lo aiuta a scendere dalla bici e lo sdraia a terra. Lui piange, non riesce a fermare le lacrime. Lo guarda e gli dice “Senza Marika non ce l’avrei fatta”. L’uomo lo stringe a sé, senza dire niente.Llo rialza e lo accompagna verso il tepore di un tendone e del the caldo.

Alla tivù il telecronista, con evidente commozione, ricorda “..e sicuramente il saluto finale era per la moglie e il piccolo figlio persi un anno fa in un terribile incidente d’auto…” 

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