venerdì, maggio 31, 2013

Un sole che dura poco (parte 3)

Marco capì d’essersi perso per l’ennesima volta. In verità non doveva capirlo,ma solo ammetterlo a sé stesso. D’altra parte quando vagava per la città in bici e la musica nelle orecchie,raramente seguiva un percorso logico,erano pochi i momenti di tempo libero e quel giorno un inaspettato sole offriva stimoli maggiori nella pedalata. Era stato tutta la mattina e gran parte del pomeriggio in biblioteca, l’esame era imminente e ancora gli mancava più di una dispensa,ma si sentiva soddisfatto della sessione di studio e,non dovendo lavorare quella sera,si poteva concedere un po’ di svago. Prese la cartina dalla tasca della giacca e cercò di orientarsi. Dopo tre mesi ancora faticava ad assimilare quella lingua greve e decisa che rendeva difficile anche la semplice lettura dei nomi di strade,piazze o viali. Sorrise pensando come i suoi nonni in Italia parlassero un dialetto ancora più criptico e indecifrabile,anche per lui. Mentre scorreva con il dito a ritroso il suo percorso, il cellulare vibrò. Era un sms di Karl, uno dei suoi coinquilini, che gli chiedeva di raggiungerlo per aprirgli il lucchetto della sua bicicletta. Marco sbuffò, perché ora aveva capito in che punto della città s’era andato a cacciare e raggiungere Karl non sarebbe stato veloce. Addio ore di libertà si disse. Diede un’ultima scorsa alla cartina, la ripiegò nella tasca e inforcò la bici in direzione dello sprovveduto amico. Va precisato che Marco non era certo uno scassinatore di lucchetti, semplicemente Karl, essendo una persona estremamente distratta, spesso perdeva o dimenticava da qualche parte la chiave del lucchetto,di casa,del box o qualsiasi altro genere di pezzo di metallo da infilare in una serratura. Erano la sua nemesi. Stava seguendo un dottorato talmente specifico e dettagliato che Marco non riusciva nemmeno a pronunciarne il titolo, ma il suo cervello in fatto di conservazione chiavi, perdeva ogni attività neuronica. Tutto ciò l’aveva portato alla geniale conclusione che l’unica soluzione fosse fornire i propri coinquilini di una copia delle chiavi essenziali, tra quelle non in comune, per correre in suo soccorso in caso di bisogno. Imprecando tra sé e sé contro Karl, imbucò la pista ciclabile opposta a dove si trovava.

Dovendo attraversare quasi tutta Copenaghen, si costruì mentalmente un percorso seguendo dei punti di riferimento facilmente riconoscibili. Se non si fosse perso nuovamente, forse il fine giornata non sarebbe stato tutto da buttare. Passò velocemente vicino alla Christian’s Church, anche quel giorno piena di turisti in coda per poter salire fino all’apice del suo campanile. Proseguì verso la Black Diamond, la biblioteca enorme nella quale passava gran parte del suo tempo, per poi pedalare a rotta di collo verso Norrebro, il quartiere multi etnico dove i profumi della città si mischiavano a quelli dei ristoranti tipici e dei negozi d’antiquariato. Amava muoversi così, in piena libertà, correndo su quelle piste ciclabili infinite che gli permettevano ogni volta di far strade sempre diverse e nuove. Era convinto che non sarebbe mai riuscito a vederla tutta, quella città. Ma ci voleva provare. D’altra parte la sua specialistica sarebbe durata ancora un paio d’anni e l’imminente possibilità di lavorare nel progetto da lui ideato per la Casa del Cinema, la Filmhuset, stimolava ulteriormente la sua voglia di restarci per un bel po’.
Dopo una quarantina di minuti di pedalata intensa, raggiunse Karl alla stazione Centrale di Copenhagen. Ovviamente stava intrattenendo delle giovani turiste, suo sport preferito. Non appena vide Marco arrivare, le salutò frettolosamente per raggiungere l’amico. Sicuramente non erano di suo gradimento, altrimenti staccarlo sarebbe stato molto più complesso.

“Hi my friend!”
“See see my friend, più che altro my portachiavi!” rispose fintamente stizzito Marco.
“Dai Marco, mi rifarò questa sera offrendoti un paio di giri di birra!”

Marco prese dal suo zaino le chiavi di scorta di Karl e gliele lanciò. Il sorriso del suo amico tedesco dai lunghi rasta neri lo portò a pensare che strano essere fosse. Sua madre era siciliana, suo padre un tedesco fatto e finito. Si erano conosciuti durante un congresso sulle scienze motorie a Roma e da allora non s’erano mai più separati. Il loro lavoro li aveva fatti viaggiare in tutta Europa e il piccolo Karl era divenuto cittadino del mondo. Parlava fluentemente diverse lingue e girare per locali con lui era una manna dal cielo, per le ragazze ovviamente. Ormai era in pianta stabile da tre anni a Copenhagen e non era intenzionato ad andarsene molto presto.

“Che fai torni a casa?” gli chiese
“No, credo che sfrutterò ancora quelle poche ore di luce rimasta per farmi qualche altro giro. Ci vediamo per cena” e così dicendo rimise gli auricolari del suo lettore mp3 e, salutato con un cenno l’amico, ripartì verso il centro della città. 

Quel sole improvviso aveva colorato il mondo intorno a lui. I danesi, abituati alla pioggia e al naturale annuvolamento costante, in quelle occasioni sembravano più felici del solito. O almeno a lui così sembrava. Percorse diversi chilometri perdendosi più volte ma senza realmente preoccuparsi, ritrovando poi la via di casa senza bisogno dell’inseparabile cartina. L’importante era girare per un po’ e poi riconoscere qualche luogo per orientarsi. Legò il suo mezzo a pedali alla ringhiera davanti al portone d’entrata che era già buio. Ormai, pensò, gli altri avranno già cenato. Poco male, avrebbe mangiato un panino veloce e poi tutti a sbronzarsi, era la sua serata libera e voleva sciogliersi un po’. Mentre faceva le scale il cellulare squillò nella sua tasca. Era sua madre. Strano, pensò, che lo chiamasse sul cellulare e non tramite skype.

“Ciao bionda!” disse
“Ciao Marco, scusami se ti chiamo sul cellulare, ma devo dirti una cosa e non sapevo se fossi online”
“Wow mi fai preoccupare, che succede?”
“Senti, Vittorio ha avuto un malore, è all’ospedale, non sapevo se dirtelo,ma so quanto tieni a lui e da quello che mi hanno detto non sta migliorando” recitò sua madre, tutto d’un fiato, come se si fosse preparata il discorso.
“Cazzo. Ma cosa è successo?che malore?”
“Un infarto, molto violento. E’ in ospedale in coma farmacologico per fargli riprendere il normale battito cardiaco, hanno paura che non riesca a svegliarsi. Mi spiace caro dovertelo dire così, ma non avevo altro modo. Ora stai calmo. E’ comunque in buone mani. Al San Raffaele. Ti aggiorno non appena so qualcosa.”
“Io…ok, va bene. Grazie.” Rispose automaticamente Marco. La sua mente stava viaggiando alla velocità della luce. Milioni di pensieri si susseguivano misti ai ricordi.
“Ciao tesoro, non ti faccio spendere altri soldi, se vuoi ci sentiamo più tardi con skype”
“Sì, magari dopo cena.Ciao”

Vittorio. Il volto dell’uomo gli si parò davanti, sorridente come sempre, con quelle rughe sulla fronte e intorno agli occhi che volevano solo dire ottimismo e uno sguardo alla vita felice. Ora stava in un letto, forse con centinaia di tubi che usciva ed entravano nel suo corpo. La persona che li aveva uniti e probabilmente salvati. Un secondo padre per tutti loro. E lui era distante da quel letto più di mille chilometri.

Entrò in casa e come un automa si tolse le scarpe e appese la giacca all’entrata. Si diresse in camera sua trascinandosi. Karl gli disse qualcosa dalla cucina ma era lontano una vita da Marco. Prese il suo pc e lo accese. Non sapeva cosa fare. Era in uno stato in cui il suo mondo si era improvvisamente fermato e ora doveva fare qualcosa e non sapeva bene cosa. Di sicuro non poteva stare li.
Karl comparì sulla soglia della porta.

“Che succede Marco?”
“Eh?”
“Ho detto, che succede Marco..ti vedo spento e non credo di sbagliarmi”
“Vittorio sta male” rispose senza pensare
“Vittorio chi?”
“Devo tornare a casa velocemente. Un mio carissimo amico, anzi più che un amico”
“Mi spiace, posso fare qualcosa?”
“No Karl, grazie. Devo chiamare gli altri ora.”

Karl non capì, ma ebbe la cortezza di lasciarlo solo e si allontanò chiudendo la porta. Marco apprezzò. Controllò gli utenti online su skype, ma non trovò nessuno di quelli che voleva chiamare. Spulciò allora i contatti del telefono e con ansia infinita andò sull’unico che sapeva di dover chiamare. Non si parlavano da almeno un anno, dopo quella cazzata che aveva fatto. Ma ora la questione era seria e sapeva che non aveva altra scelta. Premette il tasto di chiamata.

Dopo diversi squilli, dall’altro capo, che sentiva lontano anni luce, rispose una voce familiare.

“Pronto” disse con tono interrogativo, probabilmente leggendo un numero danese sconosciuto.

“Ciao Dario, sono Marco”

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