venerdì, marzo 31, 2006

La casa del sonno

Attraverso la vita di alcuni studenti universitari, raggruppati da una residenza-fortezza a picco sul mare e legati da un difficile incastro sociale, Jonathan Coe ci narra una stramba e travagliata storia d’amore, che avrà risvolti insoliti e tragicamente comici. L’autore sceglie d’alternare passato e presente ambientando i capitoli dispari negli anni ottanta e quelli pari nel presente. Ciò crea un piacevole gioco di scoperte e di ruoli nel quale ci si trova subito coinvolti. La narrazione è sciolta e scorrevole, mai troppo barbosa o pedantemente descrittiva, anche in paragrafi interi dove la descrizione puramente scientifica delle patologie legate al sonno potrebbe arrancare, riesce a non annoiare. Quindi un libro perfetto? No, e vi spiego il perché. La qualità della scrittura non riesce ad ovviare a dei difetti davvero snervanti. A volte la narrazione è tagliente, sagace, sarcastica ed estremamente originale, ma capita che, in presenza di snodi e rivelazioni chiave, si riveli prevedibile e troppo banale; mi è capitato più volte di trovarmi a ridere leggendo le parti più esilaranti e coglierne un tipica sagacia inglese, ma succede che alcuni personaggi risultino troppo stereotipati, costruiti a perfezione per quel preciso ruolo e poi abbandonati al nulla narrativo, oppure spinti al limite delle loro caratteristiche “in difetto”. Inoltre mi chiedo, ma com’è possibile che in una storia ambientata tra Londra e la sua periferia, tutti conoscano tutti, i personaggi, anche quelli di sfondo come, per esempio, l’analista della protagonista, Sarah, si ritrovi poi ad un convegno a Londra diviso in gruppi di cinque persone a parlare con l’ex-ragazzo di lei e gli sveli praticamente tutto delle loro sedute; nello stesso gruppo si ritrova uno psicologo preoccupato per un paziente pericoloso e schizofrenico che, senza il suo supporto, verrà presto rilasciato e, guarda caso, avrà anche lui un ruolo nella storia. Queste coincidenze, questi incastri mi sono risultati troppo forzati, come se venissero a giustificare, anzi aiutare lo scrittore che, suo malgrado, aveva forse esagerato con la costruzione preliminare dell’intreccio. E poi basta con questi finali da titoli di coda imminenti, finali da film dalla lacrima facile con Julia Roberts o Huge Grant (oops, Hugh, come Marco gentilmente mi ha fatto notare!). Ci si aspetta quasi dall’inizio del libro un incontro, arriva, ma all’ultima pagina. Non esistono più scrittori capaci di rapportarsi con il dopo, con quello che i personaggi (da lui creati, concepiti e quindi non estranei) si diranno, con ciò che faranno e ciò che saranno?
Un libro a metà, quindi, che non mi ha convinto soprattutto nel finale, la sua più grande pecca. Un dispiacere, perché fino alle ultime sessanta, settanta pagine riusciva, nonostante tutto, ad incantarmi piacevolmente.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Cattivo!
Io lo leggero lo stesso perché mi piace Coe

:-)